Il dolore muscoloscheletrico: una overview
Il dolore cronico (neuropatico, muscolare, infiammatorio, meccanico/compressivo) colpisce otto milioni di individui in Italia, quarantatre milioni se si considerano globalmente Regno Unito, Francia, Germania, Italia e Spagna, cinquanta milioni negli USA, dati questi ultimi segnalati recentemente dall’NCCIH americano; la sua prevalenza, nell’ambito delle condizioni che il medico di medicina generale si trova ad affrontare, può arrivare al 33%.
Il profondo e radicale cambiamento nel concetto di salute percepita non più come la sola assenza di malattia, ma come “uno stato di benessere fisico, psichico e sociale” secondo la recente definizione dell’OMS, ha modificato in modo rilevante l’approccio diagnostico e terapeutico al dolore in generale e ovviamente anche al dolore muscoloscheletrico che ne rappresenta l’aspetto di più frequente riscontro.
In quest’ottica la legge 38 del 2010 è apparsa come una legge fortemente innovativa. Essa infatti, oltre a garantire l’accesso alla terapia del dolore da parte del paziente, sottolinea l’importanza del rispetto della dignità e autonomia della persona umana, il bisogno di salute, ed il diritto a programmi di cure che non solo siano appropriati, ma individuali e pertanto adeguati alle priorità e preferenze del paziente, della famiglia e del contesto sociale in cui il paziente vive.
Altro aspetto di rilievo in questi ultimi anni è il passaggio dalla definizione del dolore, sinonimo di sintomo, al “dolore malattia”, da cui la necessità di identificarne non solo le caratteristiche, in termini di segni clinici associati e severità di questi, utilizzando specifici questionari e scale di valutazione come il BPI-SF, la VAS, ma come per tutte le malattie la causa patogenetica; per questo appare fondamentale la realizzazione di un percorso diagnostico terapeutico integrato e multidisciplinare (PDTA), che avvalendosi delle specifiche competenze, possa identificare la strategia più appropriata per il paziente. Purtroppo dati recenti, emersi dai nostri reparti di degenza, evidenziano che poco più del 50% dei pazienti con dolore moderato/severo riceve una terapia analgesica adeguata all’intensità della sintomatologia e overviews internazionali valutano a non più del 30% la riduzione del dolore che si ottiene con le attuali modalità di trattamento.
La multidisciplinarietà di figure specialistiche, che si identificano fondamentalmente nell’ortopedico, nel fisiatra e nel reumatologo (ma non solo in queste), rappresenta dunque un elemento indispensabile per approcciare correttamente la complessità diagnostica del dolore muscoloscheletrico, che si riconduce a cause e meccanismi patogenetici molto diversi fra loro. Questo tipo di dolore può infatti riconoscere tutti quelli che sono i meccanismi biologici del dolore: il dolore neuropatico nell’algodistrofia riflessa e nella fibromialgia, il dolore muscolare nelle sindromi miofasciali del collo, delle spalle, del tronco, degli arti, il dolore infiammatorio nei vari tipi di artrite e di connettiviti, il dolore meccanico/compressivo nell’artrosi, nelle discopatie, nelle sindromi postraumatiche e postfratturative.
Pensiamo ad esempio proprio alla complessità diagnostica e quindi terapeutica, di una malattia come la fibromialgia, considerata fino a 10 anni fa una malattia immaginaria e che si riscontra nel 2-7% della popolazione, con un trend sicuramente in crescita, anche perché oggi riusciamo a riconoscerla. La patogenesi della malattia è peraltro ancora in larga parte non definita (ridotti livelli di amine biogene, aumentata concentrazione di neurotrasmettitori eccitatori come la sostanza P, aumentati livelli di interleuchina 8 nel liquido cerebrospinale, alterazioni neuroendocrine, disregolazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, polimorfismi dei geni per i recettori degli oppioidi e delle proteine del sistema nervoso centrale) e numerose sono le patologie che lo specialista deve poter escludere in termini di diagnosi differenziale (forma primitiva o forma secondaria a miopatie, farmaci, ipotiroidismo, epatite C, malattie reumatiche varie, ecc…).
Sempre in tema di approccio diagnostico pensiamo al ruolo dell’ipovitaminosi D, spesso come cofattore, ma talvolta come fattore eziologico primario (nei casi di severo deficit) del dolore muscoloscheletrico; questo aspetto, sempre più diffusamente segnalato in studi epidemiologici condotti nei paesi occidentali, è emerso recentemente anche in paesi come l’India. Oltre ai ben noti effetti metabolici ossei, l’individuazione di specifici recettori per la vitamina D nel tessuto muscolare scheletrico ne ha messo infatti in evidenza il suo coinvolgimento nella funzione muscolare, nelle mialgie e nell’astenia più in generale. Il mancato riconoscimento del ruolo patogenetico dell’ipovitaminosi D nel dolore cronico, ha indotto spesso ad errate diagnosi (patologie virali, fibromialgiche, neuropsichiatriche, ecc…) con la conseguenza di trattamenti inappropriati, con effetti collaterali anche seri, e soprattutto inefficaci.
Sarà pertanto fondamentale delineare, come previsto dalla legge 38/2010 un percorso diagnostico che partendo dall’anamnesi del paziente con dolore muscoloscheletrico caratterizzi e quantifichi tipo, durata, gravità, localizzazione del dolore attraverso l’utilizzo di opportune scale validate come la scala VAS, oppure questionari su quanto il dolore impatti le capacità funzionali e più in generale la qualità di vita come l’HRQOL, il FIQ, il QUALEFFO, il FAQ5, ecc.
Anche per quanto riguarda la gestione, farmacologica e non del dolore muscoloscheletrico, ci sono nuovi approcci e revisioni di precedenti raccomandazioni. Un esempio recente è rappresentato dal paracetamolo che nelle raccomandazioni e negli algoritmi dell’OMS e di numerose Società scientifiche ( EULAR, ACR, IASP, ACPA, ICSI) rappresenta il farmaco di primo impiego nella gestione del dolore conseguente a varie patologie con una escalation che, attraverso le tappe successive del dolore moderato e severo, arriva all’impiego degli oppioidi forti. Sempre più numerose sono le overviews e gli studi epidemiologici che ne hanno recentemente documentato una scarsa efficacia di tale farmaco, sicuramente inferiore a quella dei FANS, a fronte di effetti collaterali epatici, renali, cardiovascolari talvolta molto gravi; la tossicità del paracetamolo rappresenta infatti la causa più comune di insufficienza epatica acuta nei paesi industrializzati ed il motivo prevalente di trapianto di fegato nella UE. Pertanto l’FDA e numerose Società scientifiche raccomandano di non prescrivere posologie giornaliere superiori a 4 grammi o combinazioni analgesiche che ne contengano più di 325 mg. In realtà nel nostro paese l’utilizzo di tale farmaco è sempre stato limitato a favore di un maggiore uso di FANS, talvolta anche eccessivo.
Appare importante pertanto una rivalutazione delle raccomandazioni esistenti, alla luce di più recenti acquisizioni eziopatogenetiche, come ad esempio per la fibromialgia nella quale FANS, oppioidi e gli stessi corticosteroidi risultano essere meno efficaci di un approccio strutturato invece su più livelli, che comprendano anche interventi complementari di tipo fisico e cognitivo-comportamentale.
Quindi nelle recentissime reviews e raccomandazioni di società come l’ACPA, AAPMR IASP, EULAR, accanto agli interventi farmacologici (analgesici, FANS, COX-2 inibitori, oppioidi, antidepressivi, neuro modulatori, ecc) vengono inseriti anche interventi di medicina fisica (esercizi di vario tipo, training funzionale, riabilitazione), interventi mini-invasivi (iniezioni intra-articolari di steroidi, anestetici, acido ialuronico), applicazioni topiche di FANS e capsaicina, approcci di tipo psicoterapico e comportamentale e in alcuni casi di terapie complementari come l’omeopatia, l’agopuntura, la fitoterapia, la musicodanzaterapia e la pet therapy.
Nell’ottica di una visione olistica del paziente, la combinazione di terapie tradizionali e di altri interventi più innovativi anche se meno tradizionali può e deve dunque differire in rapporto non solo alla malattia dolore, ma alle esigenze e aspettative individuali.
Un percorso diagnostico e terapeutico coordinato da un team multidisciplinare di specialisti che sia impostato sull’approccio appropriato al dolore muscoloscheletrico come malattia, da condividere anche con il medico di medicina generale (medico di famiglia) e con altre figure e strutture territoriali, rappresenta l’obiettivo per migliorare i risultati in termini di salute e qualità di vita per il paziente, anche a fronte di ridotti costi per la sanità e la società tutta.
O. Di Munno

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