Algodistrofia: storia di un nome
Poche malattie hanno conosciuto una storia tanto controversa come l’algodistrofia. Nelle diverse epoche della storia della medicina, la sua stessa denominazione ha subito delle variazioni drastiche per cercare di sottolineare le prevalenti convinzioni patogenetiche succedutesi.
Il francese Ambroise Parè, padre della moderna chirurgia, descrisse per la prima volta una condizione morbosa che potesse essere ascrivibile all’attuale algodistrofia. Egli curò, con esito positivo, una persistente e importante sindrome dolorosa comparsa dopo una flebotomia all’arto del sovrano francese Carlo IX di Valois. A Parè si deve anche l’individuazione di un’altra patologia dolorosa cronica, clinicamente vicina all’algodistrofia, la sindrome da arto fantasma. Si narra che tali capacità diagnostiche e terapeutiche messe a disposizione della casa dei Valois gli permisero di avere una vita lunga (80 anni) in un’epoca caratterizzata da un’età media della popolazione maschile decisamente bassa. Durante la notte di San Bartolomeo, nella quale fu perpetrata la strage degli Ugonotti di Francia, Parè fu salvato dallo stesso sovrano Carlo IX che lo nascose nel proprio armadio.
La prima vera documentazione bibliografica di una descrizione dell’algodistrofia fu opera di un medico inglese Denmark, chirurgo presso l’Ospedale della Marina Militare inglese nell’Hampshire. Egli pubblicò il caso di un soldato ferito da un proiettile che aveva attraversato il braccio, nella regione sovracondiloidea, durante l’assedio di Badajoz (1812): la ferita era guarita prontamente ma, alla dimissione, Denmark descriveva la seguente situazione clinica: “I always found him with the forearm bent and in supine position, and supported by the firm grasp of the other hand. The pain was of a ‘burning’ nature, and so violent as to cause a continual perspiration from his face”. Denmark correlò il dolore persistente e urente al coinvolgimento del nervo radiale nella lesione da arma da fuoco del braccio.
Questa accurata descrizione di un caso clinico fu sostanzialmente ignorata. Destino diverso ebbe la descrizione di altri casi clinici da ferita da arma da fuoco avvenuti durante la guerra di secessione americana alcuni decenni dopo. Ciò fu dovuto soprattutto alla capacità, che oggi definiremmo mediatica, di Silas Weir Mitchell, medico di Philadelphia che dedicò la sua iniziale attività alla cura dei militari feriti durante la guerra di secessione americana. S.W. Mitchell fu anche un abile narratore che, nella descrizione dei casi clinici, includeva interessanti considerazioni psicologiche. In particolare, insieme ai suoi collaboratori George Morehouse e William Keen, si interessò alle lesioni nervose periferiche da arma da fuoco, pubblicando nel 1864 una monografia, “Gunshot Wounds and Other Injuries”, che divenne il punto di riferimento per la diagnosi ed il trattamento delle lesioni nervose fino alla 1^ Guerra Mondiale.
(immagine: Sir Silas Weir Mitchell)
Tra le patologie accuratamente descritte da Weir Mitchell, vi è una sindrome caratterizzata da un tipico dolore cronico urente, associato a turbe cutanee, e localizzata distalmente alla sede della lesione nervosa periferica.
L’autore descrive in maniera suggestiva e accurata i segni ed i sintomi caratteristici di quella che noi oggi chiamiamo Complex Regional Pain Syndrome (CRPS).
“The skin affected in these cases was deep red or mottled, and red and pale in patches. The subcuticular tissues were nearly all shrunken, and, where the palm alone was attacked, the part so diseased seemed to be a little depressed, firmer, and less elastic than common.
In the fingers there were often cracks in the altered skin, and the integuiments presented the appearance of being tightly drawn over the subjacent tissues. The surface of all the affected parts was glossy and shiny as though it had been skilfully vanished. Nothing more curious than these red and shining tissues can be conceived of. In most of them the part was devoid of wrinkles and perfectly free from hair”.
Weir Mitchell aveva anche intrattenuto una corrispondenza scientifica con l’altro grande medico dell’epoca, Sir James Paget, chirurgo della Regina Vittoria, che riteneva la patologia molto simile a quella dei geloni.
“Mr. Paget’s comparison of chilblains is one we often use to describe these appearances, but in some instances we have been more strikingly reminded of the characters of certain large thin and polished scars.”
Weir Mitchell individuò il primigenio ruolo patogenetico della lesione nervosa periferica, anche se riteneva necessario chiarirne ulteriormente le caratteristiche.
“Further study led us to suspect that the irritation of a nerve at the point of the wound might give rise to changes in the circulation and nutrition of the parts in its distribution, and that these alterations might be of themselves of a pain-producing nature”.
A questa condizione clinica fu successivamente attribuito il termine di “causalgia” in un secondo libro dal titolo “Injuries of Nerves and their Consequences”, pubblicato da Weir Mitchell nel 1872. Si suppone tuttavia che il termine sia stato coniato da Robley Dunglison, come affermato dallo stesso Weir Mitchell. È comunque certo che il termine fosse già comparso nella prima edizione del Dunglison’s Medical Dictionary del 1874. L’etimologia del termine deriva dalla crasi tra le parole greche “kavaros” (calore) e “ockyos” (dolore), e sottolinea le caratteristiche cliniche della regione corporea sede della condizione patologica.
Una successiva fondamentale tappa nella storia di questa patologia è legata al nome di Paul Sudeck che nel 1900, al 29° Congresso della Società Germanica di Chirurgia, presentò un lavoro dal titolo “Acute inflammatory bone atrophy”. In tale lavoro Sudeck descriveva i risultati delle sue sperimentazioni su alcuni pazienti che aveva sottoposto ad esami radiografici, entrati da pochissimo tempo nella pratica clinica, ma di cui Sudeck divenne subito grande esperto.
Egli descrisse esempi di un’atrofia ossea che poteva manifestarsi dopo: infiammazione acuta delle dita, frattura del radio, della spalla o dello scafoide, lesione legamentosa, o anche dopo un’infezione dei tessuti molli, lesione nervosa o Herpes Zoster.
Sudeck sosteneva che spesso la condizione regrediva velocemente, così come era apparsa, con restitutio ad integrum del tessuto coinvolto, ma talvolta permaneva per lungo tempo in una forma cronica estremamente disabilitante. La descrizione che forniva era assolutamente precisa ed attuale: “Irregular obliteration of the pattern of bony striation,… diffuse reduction in radiodensity of the bone image, with lacunae of spongiform bone,… the cortex is striated, especially in the digits, but does not show a reduction in thickness… It is likely that, in sites distant from the site of the illness, it takes the form of an inflammatory irritation, which involves nutritional problems… and in consequence resorption of bone. Evidently, it is not by nature a physiological resorption of inactive bone, but if I may so put it, an active atrophy.”
Nonne, un allievo di Sudeck, nell’anno successivo coniò il nome di “Sudeck’s atrophy” per definire questa particolare forma di atrofia ossea.
(immagine: Paul Sudeck)
Un’altra tappa decisiva nella storia dell’algodistrofia fu la formulazione dell’ipotesi di un ruolo fondamentale del sistema simpatico nella comparsa dei segni e dei sintomi della patologia. Tale ipotesi nacque dall’esperienza come chirurgo militare di René Leriche, un chirurgo di Strasburgo, durante la prima guerra mondiale. Nel 1917 Leriche descrisse il caso clinico di un paziente che lamentava una sindrome dolorosa cronica con parestesie alla mano, non attribuibile ad ischemia, in seguito ad una ferita da arma da fuoco all’ascella destra. Su questo paziente Leriche effettuò la prima simpaticectomia periarteriosa, con risoluzione completa della sindrome dolorosa a distanza di due settimane. La simpaticectomia fu successivamente praticata con successo in altre sindromi caratterizzate da importanti disturbi vasomotori, come la malattia di Raynaud e la sclerodermia. Leriche coniò il termine di “neurite del simpatico” a sottolineare il ruolo, a suo parere fondamentale, del simpatico nella patogenesi del dolore neuropatico.
Il ruolo dell’attività simpatica, nella genesi in alcune forme di dolore cronico neuropatico, fu ulteriormente indagato da James A. Evans, un medico della Clinica Lahey a Burlington, Massachusetts, al quale si deve il termine “reflex sympathetic dystrophy (RSD)”. Egli descrisse, tra il 1946 ed il 1947, una sindrome dolorosa cronica presentata da 57 pazienti, caratterizzata da intensa sofferenza e segni clinici che egli interpretò come da “stimolazione del simpatico,… cioè rubor, pallore, o una miscela di entrambi, sudorazione e atrofia…”. Tale sindrome compariva dopo fratture (21%), distorsioni (21%), complicanze vascolari (19%), amputazioni (9%), artriti o osteiti (5%), lacerazioni (2%), o lesioni minori, comprese contusioni (9%) e difetti posturali del piede (7%). Evans confermò che spesso il dolore veniva alleviato da blocchi simpatici, confermando l’ipotesi che esso fosse collegato ad un’anomalia del sistema nervoso simpatico. Sostenne l’ipotesi che un eccesso di input afferenti, legati al danno tissutale, avviasse una catena di attivazione che coinvolgeva i neuroni simpatici. L’attività delle efferenze simpatiche post-gangliari produrrebbe spasmi delle arterie con conseguente ischemia, aumento della pressione di filtrazione capillare, edema e gonfiore.
Un anno dopo che Evans ebbe coniato il termine distrofia simpatico-riflessa, Philip S. Foisie, un chirurgo del Boston City Hospital, propose un’altra ipotesi patogenetica: uno spasmo arterioso persistente, ma di basso grado, a seguito di una lesione dei tessuti molli, poteva portare ad una sindrome dolorosa severa con allodinia, edema dei tessuti, atrofia muscolare, osteoporosi, rigidità articolare e riduzione della mobilità articolare. Foisie, sostanzialmente sostenne che la distrofia simpatico-riflessa dovesse meglio essere definita come “vasospasmo arterioso traumatico”. Secondo Foisie, il vasospasmo delle piccole arteriole portava alla diminuzione dell’apporto nutritizio con conseguenti alterazioni degenerative, soprattutto del sistema muscolo-scheletrico. Egli osservò che la sindrome era ancora più probabile in pazienti con lesioni da compressione con un aumento della pressione intracompartimentale.
L’ischemia provocherebbe un danno microvascolare che aumenterebbe ulteriormente lo stravaso di plasma per maggiore permeabilità delle pareti dei capillari.
Sia Evans che Foisie suggerivano che i blocchi del simpatico potevano essere utili per alleviare il dolore nei loro pazienti. Per Evans la maggiore attività delle efferenze simpatiche era cruciale per il mantenimento del circolo vizioso mentre, per Foisie, la natura della lesione periferica di per sé era in grado di avviare il vasospasmo. Alla luce delle attuali conoscenze patogenetiche sulla CRPS, la teoria di Fosie è sicuramente più attendibile, ma paradossalmente essa non venne presa in considerazione dalla comunità scientifica internazionale, come testimoniato dal fatto che non venne più citata già pochi anni dopo la sua pubblicazione. Al contrario, le teorie di Evans godettero di un successo mediatico notevole, tanto che il termine da lui coniato di “distrofia simpatico-riflessa” è rimasto in auge per decenni ed è ancora oggi molto utilizzato.
Gli anni ’50 videro la nascita di una nuova disciplina medica, come costola dell’anestesiologia, l’algologia. L’atto di nascita potrebbe essere individuato nella pubblicazione nel 1953 del volume “The Management of Pain” di John Bonica. Questi era un anestesista nato a Filicudi, in Sicilia, ma emigrato a New York con la famiglia all’età di 11 anni, che dedicò buona parte della sua vita professionale e scientifica alla cura delle sindromi dolorose. Egli propose, per la prima volta, una stadiazione della distrofia simpatico-riflessa in tre tipi clinici che reputava si succedessero nel tempo.
Lo stadio 1 (acuto), presente da subito dopo il trauma fino a 3 mesi dopo, caratterizzato da cute arrossata, calda, edematosa, con marcata iperidrosi, distribuzione del dolore non radicolare o tronculare, riduzione del range articolare e della forza muscolare e normalità del quadro radiografico con scintigrafia positiva per iperaccumulo.
Lo stadio 2 (distrofico), caratterizzato da un dolore che rimane severo, cute persistentemente edematosa con perdita di annessi, di colorito meno intenso e con aree cianotiche, iperidrosi, debolezza muscolare e deficit dell’escursione articolare del segmento colpito.
Lo stadio 3 (atrofico) si presenta a partire dalla 6^ settimana, ed è caratterizzato da una diminuzione del dolore che rimane comunque disabilitante ma che migliora con il riposo e peggiora nei movimenti passivi. In questo stadio la cute appare atrofica, sottile, secca, talvolta ulcerata, fredda, marezzata o cianotica in toto. Si osservano inoltre deficit del range articolare e della forza muscolare con atrofia tendinea, retrazioni, distonia e tremori che condizionano la presenza di una disabilità motoria importante dell’arto affetto. L’esame radiografico mostra un’osteoporosi regionale non omogenea (Atrofia di Sudeck).
(immagine: John Bonica)
Tra i meriti di John Bonica vi è anche la fondazione nel 1973 della prima società scientifica dedicata esclusivamente allo studio del dolore, la IASP (International Association for the Study of Pain). Tra i vari compiti che la società si propose vi era quello di uniformare la tassonomia del complesso mondo del dolore, in particolare di quello cronico.
Una delle forme di dolore cronico più difficile da definire era proprio quello caratteristico della distrofia simpatico-riflessa. Una prima Consensus Conference fu organizzata dalla IASP nel 1988 presso lo Schloss Rettershof, vicino Francoforte, ed una seconda nel 1994 ad Orlando, Florida, allo scopo di creare dei criteri condivisi che permettessero di formulare una diagnosi di distrofia simpatico-riflessa. Fu innanzitutto sancito che l’aspetto distrofico fosse del tutto secondario a quello, clinicamente molto più rilevante, del dolore. Si propose pertanto di denominare la patologia “Complex Regional Pain Syndrome” (CRPS), volendo sottolineare con tale termine il predominante aspetto di dolore, localizzato in una particolare regione anatomica, indipendentemente da una distribuzione topografica relativa all’innervazione radicolare o tronculare. L’aggettivo “complesso” era relativo agli aspetti patogenetici e clinici molto diversificati della sindrome.
La conferenza di Orlando stabilì pertanto che poteva essere fatta diagnosi di CRPS in presenza di:
- un evento nocivo o un’immobilizzazione in grado di avviare il processo;
- dolore, allodinia, iperalgesia o comunque dolore sproporzionato rispetto all’evento scatenante;
- presenza in qualche fase del processo patologico di edema, cambiamenti nel flusso sanguigno cutaneo, o di attività sudomotoria anomala nella regione del dolore;
- la diagnosi è esclusa se esistono condizioni che possono giustificare la presenza di dolore e di disfunzione di tale entità.
Secondo la IASP quindi, la CRPS è una sindrome caratterizzata da un dolore regionale persistente, spontaneo e/o evocato, che è apparentemente sproporzionato, temporalmente o quantitativamente, a ciò che ci si aspetterebbe in conseguenza di un qualsiasi trauma o di altra lesione. Il dolore è regionale (non localizzato in un territorio di un nervo specifico o in un dermatomero) e di solito le anormalità sensoriali, motorie, sudomotorie, vasomotorie e/o trofiche hanno una predominanza distale. La sindrome mostra inoltre un’evoluzione variabile.
Nella stessa conferenza di Orlando si decise di distinguere le forme caratterizzate dal reperto certo di lesione nervosa (CRPS tipo II, corrispondente alla storica causalgia) da quelle senza accertata lesione nervosa (CRPS tipo I).
Anche se le CRPS di tipo I e II possono sovrapporsi considerevolmente, ci sono importanti differenze. La CRPS tipo II è, per definizione, una sindrome caratterizzata da un dolore neuropatico, mentre la CRPS tipo I presenta le caratteristiche del dolore misto o addirittura prevalentemente nocicettivo. Inoltre la CRPS tipo II può svilupparsi dopo la lesione di un nervo o di un plesso chiaramente rilevabile, mentre nella CRPS tipo I raramente è rilevabile una lesione dei nervi periferici.
I criteri della conferenza di Orlando presentavano una buona sensibilità ma una scarsa specificità, in altre parole erano in grado di intercettare tutti i pazienti che presentavano delle sindromi dolorose croniche regionali in base a particolari caratteristiche cliniche ma includevano, a detta dei critici, anche soggetti che non erano affetti da vera CRPS ma da patologie con quadri sintomatologici simili. Ad esempio, quasi il 40% dei pazienti con neuropatia diabetica soddisferebbe i criteri di Orlando della IASP per la diagnosi di CRPS; in quanto presentano allodinia meccanica, variazioni di temperatura cutanea, asimmetrie di lato, e spesso edema.
In pratica i criteri presentavano un’alta sensibilità, vicina al 90%, ma una bassa specificità, inferiore al 50%, con una conseguente possibile attribuzione di diagnosi di CRPS anche a patologie che non lo erano di sicuro.
Apparve inoltre subito un altro problema fondamentale nei criteri diagnostici: essi non prevedevano dati oggettivi ma esclusivamente sintomi riferiti dal paziente.
Norman Harden, un algologo di Chicago, e Stephen Bruehl, un algologo di Washington, entrambi componenti di spicco della task force IASP sulla CRPS, pubblicarono nel 1999 due articoli basati su una casistica multicentrica. Questo studio aveva lo scopo di testare la validità interna (che definisce quanto i criteri di una classificazione sono corretti per il campione di individui inclusi nello studio) ed esterna (che definisce il grado di generalizzabilità a tutta la popolazione delle conclusioni di uno studio) dei criteri di Orlando. In sostanza l’obiettivo di N. Harden e S. Bruehl era di controllare se effettivamente i pazienti affetti da CRPS presentavano quel complesso di sintomi diagnostici e, se tali sintomi permettevano di discernere tra vera CRPS e patologie simili (es. neuropatia diabetica). Inoltre cercarono anche di individuare se alcuni segni non inclusi nei criteri (ad esempio le modifiche motorie o le alterazioni trofiche) avessero una frequenza tale da farli rientrare nei criteri diagnostici.
I risultati dello studio portarono alla proposta di una sostanziale revisione dei criteri di Orlando che consisteva nell’aggiunta di segni clinici oggettivi.
In una successiva Consensus Conference, tenutasi a Budapest nel 2003, fu proposto un nuovo sistema classificativo che prevedevesse la presenza di almeno due segni clinici e tre sintomi compresi nelle relative quattro categorie. Si propose di soddisfare tre sintomi, anziché quattro, per ovviare alla bassa specificità di questi criteri ottenendo così una sensibilità di 0,85 ed una specificità di 0,69. Ciò rappresentava un buon compromesso tra la capacità di intercettare i pazienti affetti e quella di includere anche quelli non affetti da CRPS tipica. Ai fini invece degli studi clinici e della ricerca scientifica si proponeva di lasciare quattro sintomi all’interno dei criteri classificativi necessari per la diagnosi, in modo da dare maggiore robustezza ai risultati degli studi. È da sottolineare comunque che questa distinzione comporta un vulnus nel sistema classificativo della conferenza di Budapest.
Il Comitato per la classificazione di dolore cronico della IASP ha accettato e codificato i Criteri di Budapest sia per la diagnosi clinica che per la ricerca.
La stessa task force della IASP identificò una subpopolazione composta da circa il 15% di soggetti sicuramente affetti da CRPS, che non corrispondevano ai criteri precedentemente esposti, pertanto ritenne di aggiungere un terzo sottotipo denominato “CRPS – not otherwise specified”. La IASP propose quindi questa definitiva classificazione:
Author: G. Iolascon

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