Il Dolore nel cinema
“A volte l’uomo è straordinariamente e appassionatamente innamorato della sofferenza.” scriveva Dostoevskij. Partendo da questo principio, l’industria del Cinema ha fatto del dolore, sia esso determinato dalla violenza o dalla malattia, un punto fermo delle sceneggiature dei film.
Più conosciamo il dolore nelle sue differenti forme, più riusciamo ad apprezzare tutto ciò che ci procura una sensazione piacevole, é la legge del contrasto: se non abbiamo mai provato l’amarezza o la rabbia, non potremmo apprezzare fino in fondo la felicità; se non conosciamo la paura, non possiamo ammirare il coraggio, quindi forse per apprezzare maggiormente la bellezza della vita, dobbiamo prima conoscere e comprendere il dolore, sia esso nostro o degli altri. Per vedere come, nel corso degli anni la settima arte, il Cinema, ha affrontato e sviluppato il tema del dolore, faremo un breve excursus su quelli che, a mio parere, sono stati i film che meglio hanno caratterizzato l’evoluzione del dolore, partendo da quelli che in America sono stati definiti i Cancer-film, ossia i film in cui la causa del dolore è il cancro, con la sua evoluzione e le ripercussioni familiari e sociali.
Il Cinema, almeno fino al secondo dopoguerra, ha ereditato la cultura del romanzo ottocentesco e del melodramma anche sul piano della rappresentazione sia del dolore, fisico o psichico, che della eventuale malattia che lo provoca. Uno dei primi film del genere é Dark Victory ( titolo originale), in Italia Tramonto
Tramonto del 1939
Regia: Edmund Goulding con Bette Davis, che si aggiudicò l’ Oscar, con tra gli altri interpreti, un giovane e abbastanza convincente Humphrey Bogart e, in un ruolo minore, l’ex presidente USA Ronald Reagan.
Confezionato secondo gli schemi del melo’, la Davis interpreta un personaggio ricco di sfaccettature, un’ereditiera, inizialmente spavalda ed esuberante, condannata alla cecità da un glaucoma, la quale morirà tra le braccia del suo medico, che nel frattempo è diventato suo marito.
E’ solo nel 1952 che questa tipologia di film prende un indirizzo diverso e molto più complesso, grazie al grande regista Nipponico Akira Kurosawa con il film Vivere, scritto e diretto da lui.
Vivere del 1952
Regia di Akira Kurosawa
Il film, considerato tra i massimi del regista, racconta le sofferenze di Watanabe, un burocrate di Tokyo e la sua finale ricerca della vita. Passando da stagione a stagione, dal presente al passato, dal silenzio a un frastuono assordante, con un’azione lineare al presente e numerosi brevi flashback nella parte centrale, Kurosawa rivela i segreti dell’odissea di Watanabe e mette a fuoco i due temi del film: l’analisi di una vita che si spegne; la satira feroce di una burocrazia impiegatizia che soffoca la società; l’amarezza per l’inevitabile sconfitta. Il Times l’ ha inserito nella classifica dei 100 film più grandi.
Love Story del 1970
Regia di Arthur Hiller, con Ali Mac Graw e Ryan ‘O Neal, Oscar per miglior colonna sonora a Francis Lai.
Il film sul piano narrativo, è ancora fortemente legato al melodramma ottocentesco, la cui struttura è costruita attorno ai divieti sociali e alle punizioni morali o divine. Uno studente di harvard di buona famiglia s’innamora di una ragazza di origine italiana, di più umili condizioni, noostante l’opposizione del padre di lui che lo disereda, i due si sposano,lui si laurea ad Harvard, lei si ammala di leucemia e muore a 24 anni tra le braccia del suo amore.
Philadelphia del 1972
Regia: Jonathan Demme, con Tom Hanks e Denzel Whashington, vincitore di 6 premi oscar tra cui quello di miglior interprete principale a Tom Hanks.
Questo film è il manifesto di ciò che l’AIDS ha rappresentato per la società americana e nel contempo è un’attenta analisi del fenomeno “malattia”, parlando del dolore sia fisico che psichico di ciò che essa comporta per una persona.
Il merito di Philadelphia, oltre all’aver affrontato il dramma legato ad una malattia devastante, è di aver costruito la storia per mezzo di un caso giudiziario, attraverso il quale studiare le varie spinte che gravano sulla persona “condannata a morte”.
La figura cianotica, scheletrica e spenta di Andrew (Tom Hanks), infatti, affronta i suoi superiori in un’aula di tribunale, difeso dall’avvocato Joe Miller (Denzel Washington) in quanto deciso, nonostante sappia che la probabilità di vedere la fine del processo sia quasi nulla, a chiedere che venga riconosciuto come la sua malattia abbia rappresentato una discriminante, un mezzo per vessare, estromettere ed emarginare la sua persona.
Sussurri e Grida del 1973
Regia di Ingmar Bergman – vincitore dell’Oscar per la fotografia.
Opera molto dura del maestro svedese, che racchiude tutto il suo lirismo proprio nelle sequenze più gelide. La fotografia è essenziale, basandosi su colori molto decisi che rispecchiano anche lo stato emotivo dei personaggi: rosso per il dolore, bianco per l’innocenza, nero per il lutto. Il film è tessuto, anzi ricamato, con sapienza e rigore visivo, rispettando uno schema simmetrico, quasi matematico: quattro interpreti femminili e quattro interpreti maschili , ma sono le donne ad avere la scena; tra le quattro donne, due forti (la malata e la fantesca)e due deboli (le due sorelle di Agnese). Inoltre Bergman ricorre all’uso di flashback e voce narrante, espedienti poco usati nella sua filmografia. Agnese sta morendo di cancro e per l’occasione è accudita dalle sue due sorelle, Karin e Maria, e dalla badante Anna.
La prima frase pronunciata da Agnese, « È lunedì mattina presto… e sto soffrendo », introduce l’atmosfera sofferente di tutta l’opera, dominata da un lato dalla freddezza di Karin e dalla superficialità di Maria, dall’altro dall’amore, dalla purezza interiore e dalla religiosità della badante Anna e della povera Agnese. Il loro infinito e sincero affetto, è espresso con forza in una delle scene più suggestive e commoventi, dove Anna accoglie nel suo materno seno le spoglie esanimi di Agnese, riproducendo una moderna Pietà di Michelangelo. I suoni e la musica giocano in ” Sussurri e Grida” un ruolo importantissimo: il suono quasi impercettibile dei corpi attraverso il frusciare degli abiti e della biancheria; i rintocchi degli orologi da parete e l’oscillare ininterrotto e regolare dei pendoli che scandiscono il trascorrere del tempo; i rantoli, i pianti, i rumori della sofferenza, i singhiozzi, i sussurri e le grida che segnano alcune specifiche scene. Il film è una memorabile riflessione sul dolore fisico e psichico, sulla malattia mortale, sulla paura, sulla pietà umana, intesa nel senso classico di “Pietas”, sulla capacità di soffrire delle donne, che per alcune di esse può risultare anche ambigua.
Frida del 2002
Regia: Julie Taymor con Selma Hayek
” Come mi sento? non ricordo nemmeno più che sensazione avevo prima del dolore” dice Frida Khalo, la protagonista del film. La Taymor, partendo dall’incidente che costrinse Frida diciottenne a letto per mesi interi, disegna una vicenda che non può che esprimersi se non attraverso le immagini: in Frida il dolore è trasformato in un’opera d’arte, in cui lei diviene portatrice di un dolore più profondo che è quello della denuncia condizione femminile nella tradizione messicana.
Fu durante la prima convalescenza che cominciò a dipingere i suoi autoritratti, aiutata da uno specchio appeso sul soffitto. La sua pittura si trasformò presto in un “diario” della sua vita, dalla vicenda amorosa con Diego Rivera fatta di passione, tradimenti reciproci, abbandoni e nuovi incontri, alla militanza nel partito comunista che la portò a presenziare ai momenti più salienti della storia del partito nel suo paese. Frida Kahlo è la donna che, dopo aver subito un incidente devastante che le causò infiniti dolori, dopo aver perso più di un bambino nel proprio grembo, dopo che le venne amputata una gamba, pochi giorni prima di morire dipinse una natura morta di coloratissimi cocomeri e scelse di intitolarla “Viva la vida”. È proprio questo il ritratto dell’artista che il film Frida restituisce: quello di una donna forte e determinata, selvaggiamente attaccata alla vita e desiderosa di trovare un proprio posto nella società, prescindendo dagli schemi e dai limiti imposti dalla tradizione, una donna che riesce ad esprimere con la sua pittura il lato positivo del dolore.
I tre prossimi film trattano il delicato tema del’eutanasia, comunque legato a stretto filo a quello del dolore.
Le Invazioni Barbariche film canadese del 2003.
Regia: Denys Arcand, vincitore di numerosi premi tra cui l’L’Oscar al miglior film straniero
Amaro film sul decadimento degli ideali, la vicenda può essere letta dal punto di vista storico ed epocale e da quello individuale e umano in cui si insinua il cancro, la malattia fisica. Si parla di guerre, religione, economia con un linguaggio attuale e i protagonisti, che hanno vissuto intensamente l’esistenza, pur avendo anestetizzato la passione per il vivere, continuano a coltivare il gusto per il bello e per la discussione. I temi sono la vita, la felicità e il vero senso del vivere, vengono affrontate le problematiche esistenziali, quelle politiche e sociali parlando dell’evoluzione delle società occidentali, del significato della Storia, di capitalismo e socialismo, riflettendo sul rapporto tra individuo e società, tra spontaneità e condizionamento. La morte fisica fa da contraltare al morire delle ideologie, dei progetti utopici, delle religioni e del sistema economico fondato su liberismo e capitalismo. Il senso romantico della vita emerge nel confronto tra l’esistenza del padre fatta di amori passionali, amicizie e ideali e quella del figlio, costruita su carriera, soldi e cinismo. Giovani ignoranti definiti da Remy come i nuovi barbari, segnano l’era di una nuova invasione.
Mare Dentro del 2004
Regia Alejandro Amenàbar con Javier Bardem
La vera storia di Ramòn Sampedro, tetraplegico spagnolo, che per anni ha combattuto per ottenere il diritto all’eutanasia. A sostenerlo , su posizioni opposte, sono due donne, Julia e Rosa, che si trovano a fare i conti con i principi che fino a quel momento hanno regolatole loro vite. Come si fosse messo dentro la testa e il cuore del protagonista (immobile, necessariamente sulla difensiva, protetto dall’autoironia), Amenábar raffredda l’emotività (che avrebbe potuto essere esplosiva), aiutato in questo dalla recitazione millimetrica di Javier Bardem. Nello stesso tempo non resiste alla sinuosa mobilità della macchina da presa, alle aperture che gli consentono i sogni e i desideri irrealizzabili di Ramón. Il momento più bello del film é quello dell’incidente raccontato a un’amica: tutta la vita gli passa davanti agli occhi, scandita dalla rapida successione delle fotografie, dei volti, dei luoghi, delle ragazze amate. Amenábar, con la sua sapiente regia permette allo spettatore di entrare nei pensieri di Ramón e lo aiuta a comprendere perché lui ha deciso di morire: perché non c’è musica, voce, affetto che tenga di fronte all’impossibilità di essere e di riconoscere se stessi.
Amour del 2012
Regia: Michael Haneke con Jean Louis Trintignant, Emmanuelle Riva, Isabelle Huppert.
George ed Anne sono due insegnanti di musica in pensione, con una figlia anch’essa musicista che vive all’estero con la famiglia, un giorno Anne viene colpita da un ictus, Haneke indugia con il suo consueto cinismo sulle pene e sulle fatiche della vecchiaia e della malattia, fa stare lo spettatore per quasi tutto il tempo all’interno dell’appartamento dei due anziani, mostrandoci con tutta la calma che ritiene necessaria, le cure di cui una donna semiparalizzata ha bisogno: dall’essere imboccata, accompagnata al bagno, aiutata a salire e scendere dalla sedia a rotelle. Sono inquadrature sul volto e sul corpo disfatto della donna che non esprimono la pietas, maturata in duemila anni di cristianesimo,ma vogliono ingenerare orrore verso il decadimento fisico. Il gesto estremo che compie George alla fine del film, dal momento che Anne avrebbe avuto ancora poche settimane di vita, incrina il realismo del racconto portato avanti fino a quel momento ed esprime solo l’impostazione ideologica dell’autore a favore dell’eutanasia. Personalmente non sono d’accordo con la critica trionfalistica di questo film, per quanto mi riguarda vedendolo ho provato la sensazione di aprire una bara per vedere lo scempio della morte.
La Passione di Cristo del 2004
Regia di Mel Gibson con Jim Caviezel, Maia Morgenstern
Ho lasciato volutamente questo film in chiusura anche se cronologicamente non é l’ultimo perché in esso la manifestazione del dolore e della sofferenza raggiunge il suo acme. Il film di Gibson s’inserisce nella lunga frequentazione che la settima arte ha intrattenut con la Storia di Gesù.
La prospettiva de La passione di Cristo di Mel Gibson trae spunto dal libro del Profeta Isaia: “Molti si stupirono di lui tanto era sfigurato per essere d’uomo il suo aspetto. Eppure si é caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori… Era come un agnello condotto al “macello”.
Il film si allontana dalle altre pellicole del genere ed agisce a modo suo. Il regista ritiene che il Cinema sia una esperienza viscerale, capace di produrre sensazioni forti, per questo motivo ha pensato che, essendo il senso della Passione strettamente legato alla durezza della prova che cristo ha dovuto superare per la redenzione dell’umanità, il suo film avrebbe dovuto essere realistico, perché lo spettatore potesse rivivere personalmente quella terribile esperienza e in questo modo esserne vivificato. Gibson ha dunque voluto un film sconvolgente, estremo, capace di trascinare gli spettatori fino ai limiti, per far vedere che un uomo può sopportare tutto quello e ancora esprimere amore e perdono. Per dare al film maggiore autenticità e realismo ha pensato di girarlo nelle lingue usate nella Palestina al tempo di Gesù, l’aramaico e il latino e di usare nelle due ore e sei minuti di torture l’uso del rallenty, quasi a voler sottolineare maggiormente la sofferenza di Cristo, aumentando lo sgomento negli spettatori. Il film dunque presenta la versione di Gibson su ciò che é accaduto e gli aspetti della passione che lui ha voluto mostrare.
L’eccessiva violenza è l’unico punto sul quale sostenitori e detrattori del film concordano, ma i giudizi sull’interpretazione di quella violenza sono diversi. I detrattori ritengono che essa finisce per nascondere il vero senso della Passione e l’essenza della persona e del messaggio di Cristo (l’amore portato alla sua perfezione attraverso il dono di se stessi) e fa sentire lo spettatore violentato da un regista deciso a punire gli spettatori per chissà quali peccati. I sostenitori invece giustificano la violenza del film, che a loro giudizio non è mai gratuita ma esprime la potenza del Cinema capace di trasformare le parole del Vangelo in immagini. A mio parere, tralasciando la sceneggiatura, dal punto di vista tecnico, fotografia, costumi, scenografia, sonoro, il film è eccezionale.
Il grande regista Akira Kurosawa sosteneva che ” Il Cinema é la settima arte e racchiude in sé tutte le altre”.
Concluderò dunque queste riflessioni sul Cinema del dolore, con una poesia del dolore della polacca Wislawa Szymborska, premio Nobel per la letteratura nel 1996.
Nulla é cambiato.
Il corpo trema, come tremava
prima e dopo la fondazione di Roma,
nel ventesimo secolo, prima e dopo Cristo,
le torture c’erano e ci sono,
solo la terra é più piccola
e qualunque cosa accada, é come dietro la porta.
Carmen Gatto

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